Ascoltare i Burning Gates è come leggere Rimbaud: significa passare una stagione all’inferno.
Dovrei avere un mio inferno per la collera, un mio inferno per l’orgoglio, – e l’inferno della carezza; un concerto di inferni.
Così scrive il poeta nella sua ‘Stagione’ mentre le soglie di fuoco – ‘Burning Gates’ può essere tradotto come ‘Cancelli dell’Inferno’ – si aprono a una dimensione nella quale lo spirito tocca abissi innominabili ma, allo stesso tempo, forieri di una chiarezza estrema.

Un po’ perché amo le connessioni (Poesia e Musica hanno lo stesso dio) un po’ perché, come disse André Breton, dopo Rimbaud non si può tornare indietro, durante l’ascolto dell’ultimo album dei BG, ‘Dying Season’, uscito via Swiss Dark Nights lo scorso 15 gennaio, la suggestione rispetto a un’eredità lirica, nel senso più ampio del termine, è potente e rivendica l’attrazione che provo per la linea espressiva feroce che si trova in coloro che del linguaggio si servono per raccontare una rivoluzione.
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